Intervista
Mattia Cravero
Mattia Cravero

L’ottimismo della volontà. Rileggere Primo Levi ai tempi di Covid-19

Stiamo vivendo una crisi epocale e, per certi versi, inedita per l’umanità. Paure, incertezze e momenti di smarrimento sono diventati parte della quotidianità di tutti noi. Cosa possiamo imparare rileggendo Primo Levi, testimone di una delle più drammatiche pagine della nostra storia? Lo abbiamo chiesto a Mattia Cravero, dottorando e studioso del grande chimico-scrittore

Gentile Mattia Cravero, come molti di noi anche tu ammetti di esserti reso conto non immediatamente della gravità della situazione Covid, e da ricercatore, in particolare da studioso di Primo Levi, hai subito pensato a un aspetto della sua poetica. Ce ne vuoi parlare?
Assolutamente: purtroppo a fine febbraio la minaccia passava un po’ in sordina, sembrava lontana, appartenente all’altro blocco del mondo. Era una realtà scomoda a molti, a me per primo: ero stato in Sardegna e, arrivato all’aeroporto, avevo trovato strano, quasi esagerato, che mi venisse controllata la temperatura corporea. Oltretutto, anche grazie a media e social, demonizzavo il Covid-19, ne ricacciavo indietro la paura in maniera assai stupida: ridevo, scherzavo o facevo dell’ironia. Eppure la situazione in Cina era già grave. Col senno di poi ripenso a Primo Levi, all’inizio di Potassio nel Sistema periodico, dove, riferendosi al diffondersi dell’antisemitismo, scrive: «non restava altra risorsa appunto che la cecità volontaria: […] “non ci accorgevamo”, ricacciavamo tutte le minacce nel limbo delle cose non percepite o subito dimenticate». Penso a Levi e i suoi compagni liceali, ai suoi cari, e a tutti coloro che, nonostante le preoccupanti avvisaglie provenienti dal resto dell’Europa, avevano preferito attendere un miglioramento soltanto sperato, credendosi al sicuro nelle loro case. Diverso fu invece per coloro che, all’indomani dell’avvento del nazismo, decisero di scappare dal Bel Paese, rifugiandosi laddove lo screanzato braccio della Germania hitleriana non riuscì, o non poté, arrivare. Come Levi avevo fatto anche io, ripetendo le dinamiche dell’avvento di Ebola, anni fa: con la testa nascosta sotto la sabbia, proverbialmente, non mi sono accorto della portata del pericolo, ho voluto non accorgermene, pensandola lontana. Fino a quando il virus non ha bussato alla mia porta, minacciando i primi morti e minando non solo la mia quotidianità, ma anche quella dei miei cari e di tutta la specie umana.

Se la cecità volontaria è legata alla ricerca di un rassicurante ma illusorio ottimismo, si ritrova in Levi quello che Gramsci chiamava «pessimismo della ragione» e «ottimismo della volontà»? Un atteggiamento che aiuterebbe a non essere paralizzati dal panico che scaturisce da visioni catastrofiste di fronte a situazioni di forte incertezza come quella attuale.
Certo. Già l’intellettuale Franco Antonicelli aveva notato un sentimento di equilibrio, quasi di ottimismo in Se questo è un uomo. Levi stesso, interrogato dal giornalista e scrittore Giuseppe Grassano, confessò che non intendeva somministrare «iniezioni di pessimismo» al suo lettore: sarebbe stato un «cattivo servizio», scorretto. «Siccome il rischio della rovina esiste, l'unico rimedio è quello di rimboccarsi le maniche; e per intraprendere qualcosa, per difendersi da qualche cosa, bisogna pur essere ottimisti, in caso contrario non si entra in battaglia» (un impiego della semantica bellica che ci suonerà sicuramente familiare oggi…). E poco dopo: «ritengo che sia un vantaggio collettivo quello di trasmettere un messaggio che non sia disfattista. Non è sempre facile essere ottimisti naturalmente. Ci vuole molta misura, ma almeno dove è possibile, penso che sia un dovere esserlo». Ci troviamo in tempi difficili, e questo è un messaggio che potremmo far nostro con grande vantaggio, ricordandoci di mantenere sempre la misura nelle nostre vite, la mediocritas oraziana, senza lasciarci andare né a un estremo né all’altro. Anni dopo, in un’intervista per «l’Unità», Levi parlò invece di «ottimismo strumentale»: volle invocare un amuleto scaramantico contro ogni deriva, contro il collasso etico e il lassismo morale che minacciano perennemente il genere umano.

Qual era l’atteggiamento di Levi nei confronti della realtà e in particolare dell’incertezza e/o a ciò che non si può capire?
Rispondere a questa domanda non è affatto facile. Levi era un uomo mite, reattivo a ogni stimolo intellettuale: per lui, dietro ogni occasione, si celava sempre una lezione, un’opportunità di conoscenza. Persino nei confronti di quel popolo che, nel primo Novecento, aveva perpetrato lo sterminio e il suo macabro occultamento: nei Sommersi e i salvati il capitolo Lettere di tedeschi è il suo tentativo di comprendere un intero popolo, di rispondere alla domanda di tutte le domande: perché lo sterminio? Perché i bambini nelle camere a gas, perché l’annientamento sistematico di ogni etnia diversa?
Dalla scuola al Lager, Levi cercava sempre di imparare, di capire: lo ha spiegato egregiamente Mario Barenghi, fine italianista docente di Milano Bicocca, nella sua lezione Perché crediamo a Primo Levi? (Einaudi, 2013). Comprendere intende contenere, «assimilare a sé»: può quindi essere problematico, utopico a volte. Ecco il perché della sua massima per eccellenza, impressa sulle borse Feltrinelli a lui dedicate: «se comprendere è impossibile, conoscere è necessario». Non sempre arriviamo alla comprensione, ma è doveroso almeno provarci, specialmente immaginando, raccontando, dipanando il filo della conoscenza nell’avvicinamento a ciò che non si conosce o che, almeno apparentemente, non si può concepire.
Lo stesso vale per la chimica e la scienza, a scapito delle materie umanistiche della scuola gentiliana: in Idrogeno, sempre nel Sistema periodico, scriveva: «Guardavo gonfiare le gemme in primavera, luccicare la mica nel granito, le mie stesse mani, e dicevo dentro di me: “Capirò anche questo, capirò tutto, ma non come loro vogliono. Troverò una scorciatoia, mi farò un grimaldello, forzerò le porte”. […] tutto intorno a noi era mistero che premeva per svelarsi […] tutti i filosofi e tutti gli esercizi del mondo sarebbero stati capaci di costruire questo moscerino? No, e neppure di comprenderlo: questa era una vergogna e un abominio, bisognava trovare un'altra strada». Anche qui, però, non sempre è dato capire: i buchi neri, la chiralità, l’entropia, il «brutto potere» leopardiano (come nell’omonimo saggio del 1984). Ma, almeno in questo caso, l’incertezza si colma con l’accettazione della certezza di non potersi spiegare tutto, per quanto scomoda questa possa essere.

Di recente il Ministro per gli Affari regionali e le autonomie, Francesco Boccia, in una intervista al Corriere della sera, ha chiesto alla scienza certezze inconfutabili, ravvivando così un equivoco diffuso: che la scienza e, la ricerca in generale, quasi a sostituirsi alla fede, dia esclusivamente soluzioni e certezze e quindi, per estensione, risposte alle questioni umane. Cosa pensava Levi di questo atteggiamento?
Nonostante le certezze che le scoperte scientifiche dessero all’epoca (così come oggi), Levi non credeva nell’assoluta verità della scienza. L’atto di fede di cui ha parlato il Ministro è molto forte, forse troppo: come nella «distribuzione di Pascal», che descrive, per esempio nel lancio di una moneta, il numero di fallimenti necessari prima di ottenere il risultato atteso, non possiamo essere certi che le nostre previsioni divengano verità. Anche Levi pensava spesso alle variabili minime, agli operandi più piccoli che potevano pregiudicare l’operazione stessa: il famigerato Butterfly Effect, l’imprevedibilità della materia e la teoria del caos, su cui si teneva puntualmente informato leggendo «Scientific American». Per quanto possiamo prevedere il comportamento di cose e persone, non avremo mai il massimo delle possibilità a nostro favore. Tanto meno per quelle che chiami “questioni umane”: «La scienza studia la grande macchina del cosmo, ce ne svela via via i segreti, ma non risponde alle domande ultime dell'uomo. La grande illusione che la scienza potesse, in un certo senso, prendere il posto di Dio, è tramontata da un pezzo», confessò Levi a Giuseppe Grieco, su «Gente» nel 1983. Per quanto viga oggi quello che Max Weber ha chiamato «disincantamento del mondo», resta comunque utopico credere che il calcolo, la probabilità e la statistica possano darci risposte certe o assolutamente certe: una variabile dietro l’angolo potrebbe sempre invalidare la previsione, distruggendo con essa piani e aspettative che ci siamo fatti.

Tuttavia in Levi, “lo scienziato e il superstite sono una cosa sola” come affermò, nell’intervistarlo, Philip Roth: nel senso che osservare con curiosità - atteggiamento tipico dello scienziato - persino la realtà disumana del lager, lo ha probabilmente aiutato a sopravvivere.
Assolutamente sì. Levi stesso lo conferma in quell’intervista: «per me il pensare, l'osservare, è stato un fattore di sopravvivenza, è vero, anche se a mio parere ha prevalso il cieco caso. Ricordo di aver vissuto il mio anno di Auschwitz in una condizione di spirito eccezionalmente viva. Non so se questo dipenda dalla mia formazione professionale, o da una mia insospettata vitalità, o da un istinto salutare: di fatto, non ho mai smesso di registrare il mondo e gli uomini intorno a me, tanto da serbarne ancora oggi un'immagine incredibilmente dettagliata. Avevo un desiderio intenso di capire, ero costantemente invaso da una curiosità che ad alcuni è parsa addirittura cinica, quella del naturalista che si trova trasportato in un ambiente mostruoso ma nuovo, mostruosamente nuovo».
Per l’«antropologo» Primo Levi, come l’hanno definito Mario Porro e Francesco Remotti, la chimica era stata un’ottima scuola: gli aveva fornito un abito mentale basato sull’osservazione finalizzata alla comprensione che gli tornò utile tutta la vita. Pensiamo al Sistema periodico e alle «polverine di Qualitativa» di Potassio, o all’«analisi quantitativa» di Nichel che, «così avara di emozioni, greve come il granito, diventava viva, vera, utile, inserita in un'opera seria e concreta». Tanto per la chimica quanto per la vita in Lager, si trattava di «un gioco sottile di ragione, di prove e di errori. Sbagliare non era più un infortunio vagamente comico, che ti guasta un esame o ti abbassa il voto: sbagliare era come quando si va su roccia, un misurarsi, un accorgersi, uno scalino in su, che ti rende più valente e più adatto», o che ti fa precipitare in giù, senza alcuna speranza di risalita.